di Daniela Lauria
Nella mia personale maratona sulla nascita del Governo Draghi, sono rimasta per così dire “folgorata” dall’intervento in Senato di Gianluigi Paragone, ex 5 Stelle e ora leader di Italexit.
E’ successo che nell’esprimere il suo dissenso in Aula, poco prima del voto di fiducia, Paragone abbia avuto l’ardire di chiamare Mario Draghi un “incappucciato della finanza”. Non è certo il tono (ex) grillino e complottista che mi ha sorpresa, ma il fatto che quelle parole non fossero esattamente sue. Quando infatti la presidente del Senato Elisabetta Casellati lo ha redarguito, invitandolo ad usare un linguaggio “più rispettoso”, Paragone si è prontamente difeso spiegando che stava citando uno scritto di Federico Caffè.
“Contro gli incappucciati della Finanza” (Castelvecchi Editore), è per l’appunto una raccolta postuma degli articoli che il noto economista e accademico scrisse per Il Messaggero e L’Ora tra gli anni Settanta e Ottanta.
Ma chi era Federico Caffè e perché Paragone ha citato proprio lui?
Federico Caffè è stato un economista e docente di Politica Economica all’Università La Sapienza di Roma. Suoi allievi sono stati, tra gli altri, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco e l’attuale ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini. A Caffè sono intitolate piazze, facoltà, scuole. Ma soprattutto Federico Caffè è stato il mentore di Mario Draghi, che con lui si laureò nel 1970 con una tesi su “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio”. Cioè sulla stessa moneta unica di cui diverrà il custode anni dopo.
Quindi, colpo basso di Paragone: insultare Mario Draghi con le stesse parole del suo maestro. Ma il mio stupore non si è fermato qui. Googolando mi sono imbattuta così in questo vecchio articolo del Foglio, recentemente ripubblicato con l’arrivo di Draghi al governo, che cita copiosamente un libro di Ermanno Rea intitolato “L’ultima lezione: la solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato” (Feltrinelli Editore).
Proprio così, Federico Caffè è sparito una notte di aprile del 1987 e nessuno ne ha più saputo nulla. E qui mi si è aperto un mondo: ero sedotta da un giallo tutt’ora irrisolto, suggestionata da un pezzo di storia italiana in cui si poteva pensare a un paese diverso, ma soprattutto mi è parsa una stimolante opportunità di leggere Mario Draghi da una diversa prospettiva. Dovevo saperne di più e questo è il risultato delle mie elucubrazioni.
Federico Caffè, il mistero della scomparsa
La notte del 15 aprile 1987 Federico Caffè uscì di casa e non vi fece più ritorno. Lo fece all’alba, in punta di piedi, per non svegliare il fratello Alfonso, che con lui viveva. Sul comodino lasciò gli occhiali da vista, le chiavi di casa, l’orologio e i documenti.
Nessuno sa dove sia andato o se qualcuno lo abbia aiutato a far perdere le sue tracce. Dieci anni dopo una sentenza del Tribunale di Roma ne dichiarò la morte presunta. Morte che ormai potremmo dare quasi per certa, dal momento che oggi il professore avrebbe 107 anni.
Federico Caffè è stato per molti anni il più keynesiano degli economisti italiani. Riformista convinto, dedicò particolare attenzione agli economisti scandinavi e al welfare di quei paesi.
Per comprendere il personaggio, dobbiamo contestualizzare. Siamo nella seconda metà degli anni Ottanta: sono gli anni del trionfo di Reagan e della Tatcher. Gli anni dei Gordon Gekko, ricordate Michael Douglas nel film Wall Street? Era il tempo di quello che Caffè chiamava il “retoricume neo liberista”.
Ecco perché tra le ipotesi sulla sua scomparsa si è parlato anche di un allontanamento volontario, una sorta di esilio intellettuale: lo sconforto di chi si ritrae in sé stesso e decide di scomparire per protesta verso un mondo che smentisce i propri insegnamenti e le proprie visioni.
Nel libro di Ermanno Rea si avvicendano le testimonianze, i ricordi, i racconti di quanti lo hanno conosciuto: allievi, assistenti, amici che per primi lo cercarono invano. Il libro parte dall’ultima volta che Caffè salì in cattedra, nel giugno 1984, prima di andare in pensione.
Il suicidio, la fuga, il ritiro in un convento? Diverse le ipotesi, nessuna risposta. Tanti hanno fatto il parallelismo con Ettore Majorana, il famoso fisico e allievo di Enrico Fermi anche lui scomparso, poco più che trentenne. C’è chi nota che il libro di Leonardo Sciascia “La scomparsa di Majorana”, non fu più trovato nella biblioteca del professore.
Negli ultimi anni Caffè era apparso a molti depresso, forse stanco di un mondo che andava in direzione opposta alle sue idee. E poi provato da numerose perdite: la madre e la vecchia governante. E ancora tre dei suoi allievi più cari: Ezio Tarantelli, assassinato dalle Br, Fausto Vicarelli, vittima di un incidente stradale, Franco Franciosi, stroncato da un tumore. Tutti nel giro di breve tempo.
Tre giorni prima della scomparsa di Federico Caffè si uccise Primo Levi, gettandosi dalla tromba delle scale. Caffè ne rimase annichilito: “Perché così? Perché sotto gli occhi di tutti? Perché straziare i parenti?”, disse. Che il professore abbia trovato, forse, un modo più garbato di andarsene? Chi lo sa.
Mario Draghi e la lezione di Federico Caffè
Appassionarmi alla figura di Federico Caffè, mi ha reso sempre più evidente come l’affondo di Paragone fosse poco calzante. Certo, la carriera di Mario Draghi, in alcuni frangenti, sembra aver deviato dagli insegnamenti del suo maestro. Ma è pur sempre l’uomo del “whatever it takes”, che ha salvato l’euro con una politica monetaria espansiva che di più non si poteva.
Federico Caffè, ad esempio, non credeva nei tecnici e Mario Draghi ha dimostrato di tenere bene a mente la sua lezione anche formando il suo governo. Ha tenuto all’oscuro la politica fino all’ultimo ma dal suo cilindro è uscito alla fine un governo con 8 tecnici e 15 politici.
Si è detto che per capire le sue scelte basta seguire la pista dei soldi: nomi di esperienza e prestigio, così come richiesto da Mattarella, li ha spesi nelle caselle chiave di questo governo, dislocandoli però tutti in relazione con la politica. Un esempio su tutti: Giancarlo Giorgetti allo Sviluppo Economico, ma depotenziato delle competenze in materia di energia, che passano alla Transizione ecologica. Giorgetti dovrà necessariamente parlare con il ministero di Roberto Cingolani.
Politici commissariati? Può darsi, ma questo sempre alla luce della prima lezione appresa da Federico Caffè, ossia l’assoluto rigore etico con cui gestire le finanze statali. “Non sono certo un fautore del disavanzo e delle società pubbliche con i libri mastri in rosso”, diceva il professore.
In ogni caso Mario Draghi lo ha detto anche nel suo discorso di insediamento, che questo “non è il fallimento della politica: nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti”.
Gli incappucciati della finanza
Cito per semplificare una sintesi estremamente attuale di Federico Caffè, tratta proprio dal saggio “Gli incappucciati della finanza”, citato da Paragone.
“Si tratta di stabilire se il nostro paese ritardatario debba proporsi e perseguire ideali amministrativi di bonifica ambientale, di eliminazione del persistente sfasciume geologico, di elevazione del grado di qualificazione professionale dei giovani in cerca di lavoro, di ricerca impegnata di nuove possibilità di impiego”.
C’è l’ambiente di cui Mario Draghi ha parlato ampiamente nel suo discorso di insediamento, tanto da farne un tema trasversale a più ministeri. In primis il Mise e le Infrastrutture, ma anche l’Agricoltura e la Transizione digitale. Due sono tecnici e due politici.
C’è la disoccupazione, vero perno su cui puntava il keynesiano Caffè: “L’unico livello di guardia di cui occorrerebbe farsi carico è quello della disoccupazione”, diceva. Lo ha ribadito anche Draghi, nelle sue dichiarazioni programmatiche, quando ha detto che “centrali sono le politiche attive del lavoro”. E lo diceva anche da governatore della Banca Centrale Europea, quando dinanzi a una ripresa dell’eurozona senza occupazione, insisteva per continuare a pompare artificialmente l’economia. Perché mancava un solido aumento dei consumi. Mancava, cioè, un sostenuto aumento dei salari.
Volendo semplificare, la differenza chiave tra keynesiani e liberisti sta nella convinzione o meno della capacità dei mercati di autoregolarsi. E quindi nella necessita o meno di un intervento della mano pubblica per correggere le storture del mercato. Ma al tempo della pandemia, la verità è che siamo tutti keynesiani: quando le cose vanno male meglio condividere le perdite tutti insieme.
A me sembra che Mario Draghi sia ancora un eccellente allievo del suo maestro. Almeno fino a qui.
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